Il branco è passato di nuovo
Carlos Amorín
8 | 8 | 2025

Imagen: Allan McDonald’s – Rel UITA
All’alba del 17 luglio, Giornata della Protezione delle Foreste, mentre la maggior parte dei brasiliani dormiva – e molti sognavano ancora il Paese che un giorno avrebbe potuto essere – una maggioranza della Camera dei Deputati brasiliana ha siglato un patto con la devastazione.
Il disegno di legge 2.159/2021, già ribattezzato dalle organizzazioni socio-ambientali “progetto di legge della devastazione”, ha fatto ancora un passo in avanti, da un lato con la segretezza di un affare di Stato e dall’altro con il fragore di un assalto all’ultimo sangue. Con i corridoi del Congresso semivuoti, agendo alle spalle del popolo, è stato sferrato un nuovo colpo al cuore verde del Brasile.
Non è stato un atto di forza bruta, ma di calcolo. Una strategia finemente tessuta tra partiti di governo e opposizione, dove le differenze ideologiche si dissolvono di fronte agli interessi dell’agroindustria, dei baroni della terra, degli speculatori del saccheggio legalizzato. Ciò che è successo in questa sessione parlamentare non è stata semplicemente l’approvazione di un disegno di legge: è stata una dichiarazione ufficiale di guerra contro la natura, le popolazioni indigene e il futuro stesso.
Il testo approvato facilita l’ottenimento delle licenze ambientali, indebolendo i meccanismi di controllo e supervisione. Introduce la Licenza per Adesione e Impegno, una sorta di “auto licenza” che consente agli imprenditori di dichiarare “in buona fede” che rispetteranno la legge, esentandoli da precedenti analisi tecniche da parte degli organismi competenti. In altre parole è come mettere un lupo a proteggere un gregge.
Peggio ancora, viene creata una nuova figura giuridica, la “Licenza Ambientale Speciale”, destinata a progetti considerati “strategici per il Paese”. Chi definirà cosa è strategico? Lo stesso Congresso dominato dagli interessi rurali, da legislatori che disprezzano la scienza e negano la crisi climatica, ma che sanno fare affari come nessun altro? Tra le righe, il testo apre una porta secondaria affinché i progetti ad alto impatto – come l’esplorazione petrolifera alla foce del Rio delle Amazzoni – possano procedere senza ostacoli né dibattiti.
E come se non bastasse, il disegno di legge elimina la necessità di licenze ambientali per le attività agroindustriali. Nessuna valutazione preventiva, nessuna consultazione delle popolazioni interessate, nessuna parola sugli impatti cumulativi. La terra sarà utilizzata come campo di coltivazione e discarica. Il prezzo, come sempre, sarà pagato da chi sta in basso, dagli invisibili, da chi abita in ogni angolo della foresta, della savana o della palude.
Il ministro dell’Ambiente, Marina Silva, ha affrontato il Congresso con la convinzione di chi conosce già il mostro dall’interno, ma non è bastato a fermare l’assalto. Nonostante le prove scientifiche, gli avvertimenti internazionali, i recenti disastri come quelli di Brumadinho e Mariana¹, il Congresso ha scelto la fuga in avanti, verso il denaro
Il deputato Zé Vitor, del Partito Liberale, è stato il relatore del testo. Uomo dal sorriso gentile, dai modi garbati e dal discorso conciliante, è stato presentato come un possibile ponte tra gli estremi. Ha ascoltato tutti, dicono. Ma alla fine ha dato ai ruralisti ciò che volevano: la chiave della cassaforte senza dover rendere conto a nessuno.
“L’80% del governo vuole che il testo venga approvato”, ha affermato Zé Vitor senza esitazione, chiarendo che gli impegni ambientali della campagna elettorale sono stati archiviati in qualche cassetto del Planalto, insieme ad altre promesse che ostacolano la realpolitik.
Il presidente Lula da Silva ha ora l’ultima parola: approvare il testo, porre il veto parziale o respingerlo nella sua totalità. Tuttavia, anche se vetasse tutti gli articoli – una decisione improbabile – il Congresso potrebbe ribaltare tali veti in una sessione congiunta. E l’attuale Congresso, dominato dalla destra, dall’agrobusiness e da uno spavaldo gruppo parlamentare ruralista, ha già dato sufficienti segnali della sua intenzione di farlo.
In questo gioco di ombre tra i tre poteri, i settori economici più potenti hanno già vinto. Lula sta valutando una via di mezzo: porre il veto su alcuni punti, promulgare un decreto che mitighi i danni e inviare un nuovo disegno di legge per colmare le lacune. Ma il messaggio che rimane è un altro: in Brasile la lobby della distruzione ha il sostegno, il megafono e la maggioranza concessa dal voto popolare.
La società civile organizzata è in stato di allarme. Scienziati, ambientalisti, organizzazioni sindacali, popolazioni indigene e quilombolas² stanno già analizzando strategie per portare la questione alla Corte Suprema.
Gli argomenti non mancano: il disegno di legge viola articoli fondamentali della Costituzione, ignora le convenzioni internazionali ratificate dal Brasile e contraddice le sentenze già emesse dalla Corte Suprema Federale. Ma anche se si riuscisse a fermare l’applicazione del testo, quanti ettari saranno già stati distrutti? Quanti fiumi deviati? Quante specie silenziate per sempre?
Permettendo agli Stati e ai Comuni di dettare le proprie regole di concessione delle licenze, il disegno legge apre un mercato di concorrenza normativa, una guerra fiscale ambientale. Chi offrirà le condizioni più “amichevoli” alle imprese? Chi permetterà di più, controllerà di meno, chiuderà gli occhi con maggiore efficacia? La foresta non potrà competere. Il Cerrado diventerà pascolo. Il Pantanal, fumo³. E le popolazioni che vi abitano, un’altra statistica.
Nelle parole del deputato ambientalista Nilto Tatto, ciò che ci aspetta non è più efficienza, né meno burocrazia, ma più ritardi, più contenziosi, più conflitti. E, soprattutto, più danni. Non si tratta solo dell’ambiente. Si tratta del modello di Paese che si sta imponendo con la forza dei fatti. Un Paese dove il profitto è legge, la natura è un ostacolo e la vita, umana o meno, ha valore solo se genera valuta.
Il branco è passato di nuovo. Ha spazzato via quel poco che era rimasto in piedi, quel poco che resisteva alla frenesia del capitale senza freni. E lo ha fatto in nome del progresso, della modernizzazione, del falso dilemma tra sviluppo e conservazione. Lo ha fatto senza vergogna, senza umanità.
Ora resta da guardare ai margini, dove continua la resistenza. Nei popoli indigeni che non hanno mai accettato la logica della spoliazione. Negli scienziati che continuano ad allertare con dati e passione. Nei giovani che si rifiutano di ereditare un deserto. E in ogni persona che ancora capisce che senza foresta non c’è nazione, che senza acqua non c’è futuro, che senza giustizia non c’è pace.
Perché la devastazione non solo distrugge la terra, ma anche le promesse. E questa volta lo ha fatto con nome, data e firma.
² Abitanti dei ‘quilombos’, comunità formate da persone afrodiscendenti in Brasile che sono sfuggite alla schiavitù e loro discendenti
³ Cerrado e Pantanal, due tra le più ricche riserve di biosfera dell’Amazzonia brasiliana.