La fine del mais libero
In meno di un secolo il mondo ha perso tre quarti delle sue varietà agricole. Il dato, confermato dalla FAO, sembra astratto finché non viene tradotto nella quotidianità: delle migliaia di tipi di mais, grano o patate coltivati dalle comunità contadine, oggi ne rimangono solo poche decine che resistono in angoli sparsi del pianeta.
Carlos Amorín
21 | 10 | 2025

Foto: Gerardo Iglesias
La biodiversità agricola –quell’intreccio di sapori, colori e memorie che ha dato forma alla civiltà– sta svanendo sotto il peso di un modello che misura il cibo in denaro e tonnellate, non in radici, nutrizione e conoscenze.
L’America latina, culla del mais, della patata e del pomodoro, è oggi teatro di una nuova colonizzazione. Quella che 75 anni fa era iniziata come una promessa di abbondanza – la cosiddetta rivoluzione verde – si è trasformata in un regime globale di proprietà sulla vita. In nome della produttività, il nord del mondo ha imposto un modello agricolo dipendente da pacchetti tecnologici: sementi “migliorate”, fertilizzanti, erbicidi e norme commerciali progettate per favorire l’espansione di poche multinazionali. La FAO stima che quattro di esse – Bayer, Syngenta, Corteva e BASF – controllino oltre il 60% del mercato mondiale delle sementi e dei prodotti agrochimici.
Il cuore di questo dominio è giuridico: la privatizzazione delle sementi. A partire dagli anni ottanta, l’America latina ha firmato una decina di accordi che concedono “diritti di obtentor (costitutore)” a chi modifica geneticamente una coltura. Il principio è perversamente semplice: ciò che prima era patrimonio collettivo, oggi ha un proprietario.
Il trattato più restrittivo, noto come UPOV 91, vieta di conservare, scambiare o vendere sementi senza licenza, imponendo multe e persino pene detentive. Quasi tutti i paesi dell’America centrale lo hanno adottato, insieme al Perù e alla Colombia. Solo quest’ultima è riuscita ad abrogarlo, dopo le proteste dei contadini e una storica sentenza della sua Corte costituzionale.
Nel frattempo, altri governi hanno applicato lo stesso copione in silenzio, per via amministrativa. In Argentina, Brasile e Bolivia, le richieste dell’agroindustria sono state inserite, poco a poco, in decreti e regolamenti. “Le leggi favoriscono l’omogeneità ed emarginano i produttori tradizionali”, avverte Carla Poth, ricercatrice dell’Università Nazionale General Sarmiento. “I semi contadini sono trattati come pirati, quando invece sono il risultato di secoli di selezione e saggezza popolare”.
Il discorso aziendale si veste di modernità. Bayer o Syngenta promettono di “riconoscere il valore dell’agricoltore” e di “preservare gli habitat vicini”. Ma i numeri dicono altro: il 98% dei miglioramenti transgenici è legato alla resistenza agli erbicidi e ai parassiti, non alla nutrizione o alla resilienza climatica. La stragrande maggioranza delle colture modificate – soia, mais, cotone e colza – finisce per essere trasformata in agro combustibili o foraggio per animali. Non nutrono le persone, nutrono i mercati.
Anche i tentativi giudiziari per frenare questa scalata rivelano la profondità del conflitto. Nel 2007, Monsanto Technology LLC ha rivendicato davanti ai tribunali argentini il brevetto di una molecola che rendeva una pianta tollerante al glifosato. La Corte suprema ha negato il diritto con una frase memorabile: “Non si può brevettare l’ambiente, così come l’autore di un libro non diventa proprietario del linguaggio”.
Tuttavia, nel 2021, un’altra sezione ha concesso all’azienda la proprietà su sequenze genetiche “artificiali”. “Si tratta di uno scandalo giuridico”, sostiene l’avvocato Fernando Cabaleiro, dell’organizzazione Naturaleza de Derechos. “Se questa giurisprudenza si consoliderà, perderemo la sovranità alimentare”.
La storia dimostra che il controllo non sempre viene imposto dalla legge. In Bolivia, ad esempio, solo una varietà transgenica è ufficialmente consentita, ma almeno un terzo delle colture utilizza semi “illegali”, molti dei quali venduti sui social network. “È la strategia delle aziende: prima infiltrano i loro semi, poi ne chiedono la legalizzazione”, spiega l’economista ambientale Stanislaw Czaplicki Cabezas.
Parallelamente, gli impatti ecologici si moltiplicano. Negli Stati Uniti si contano già più di 40 erbacce resistenti al glifosato; in Sud America, i parassiti si adattano più rapidamente di quanto il mercato produca nuove formule chimiche. Il risultato sono terreni impoveriti, api e impollinatori in declino, fiumi inquinati, un circolo vizioso che, secondo il biologo peruviano David Castro Garro, “rompe l’equilibrio degli ecosistemi agricoli e riduce la capacità di rigenerazione della terra”.
Ma non tutto è perduto. Ai margini di questa macchina industriale, fioriscono forme di resistenza. Sulle montagne di Nariño, in Colombia, contadini e contadine si riuniscono ogni mese per scambiarsi semi autoctoni. Non c’è denaro in gioco, solo fiducia e memoria.
Alle fiere del mais autoctono a Nayarit, in Messico, i popoli wixárika celebrano ogni anno il loro raccolto come atto di identità. E sulle Ande peruviane, migliaia di famiglie conservano sui loro terrazzamenti in pietra oltre 4.000 varietà di patate, uno dei tesori genetici dell’umanità.
“Tutti i nostri sapori, le nostre storie, sono in quei semi”, dice Alba Marlene Portillo, della Rete dei guardiani dei semi della vita in Colombia. “Se li perdiamo, perderemo anche una parte di ciò che siamo”.
Nei silos del porto di Rosario, in Argentina, una montagna di soia attende di essere spedita in Cina. Ogni chicco contiene un gene brevettato, un’impronta invisibile della nuova economia globale. Il destino di quel carico, come quello dell’agricoltura latinoamericana, è segnato da un paradosso: nutrire il mondo mentre si svuota la terra della sua diversità. Forse tra cento anni non ci saranno più semi che non siano passati per un laboratorio.
Ma ancora, negli angoli dove il denaro non comanda tutto, ci sono mani che seminano ciò che resiste e mantiene viva la memoria della terra. Una battaglia in cui la posta in gioco è molto più che il cibo.